Ci alziamo alle sei per essere produttivi, rispondiamo alle mail in metro, facciamo esercizi tra una call e l’altra “perché lo dice l’app”, e la sera ci sentiamo in colpa perché non abbiamo ancora iniziato quel corso di armocromia o ripreso in mano Orgoglio e Pregiudizio.
Benvenuti nell’era del dovremmo, dove anche il tempo libero ha una sua to-do list.
Viviamo come se fossimo il reparto marketing, logistica e customer care della nostra stessa esistenza. Ma il problema non è solo fare tanto, è dover fare tutto bene. Con entusiasmo, possibilmente. Sempre on. Sempre pronti.
Eppure—spoiler—non funziona così.
La cultura della performance ha condizionato ogni angolo della nostra giornata. Il pilates non è più solo pilates, è equilibrio interiore + addominali di ferro. La cena improvvisata dev’essere aesthetic “che magari ci scappa una foto per i social”. Anche il tempo libero è diventato un progetto da costruire.
Sotto il peso invisibile delle aspettative sociali, ci dimentichiamo una cosa molto semplice: non siamo una presentazione PowerPoint con obiettivi trimestrali. Siamo esseri umani, con bisogno di pause vere, di noia, di tempo non strutturato.
Spesso ci comportiamo come se il nostro lavoro fosse una missione e noi i paladini della responsabilità totale. Certo, amare quello che si fa è un privilegio ma non significa dover vivere come se ogni riunione fosse un esame all’università.
Il lavoro non è un’estensione del nostro valore personale.
Lavorare con consapevolezza, con lucidità e con un piano, non vuol dire essere meno bravi: vuol dire essere più presenti. La leggerezza, quella vera, quella intelligente, è spesso la chiave per lavorare meglio e vivere con più lucidità.
E se invece di lottare per separare rigidamente vita e lavoro, imparassimo a farli dialogare? Coltivare equilibrio.
Il lavoro ci regala strumenti per organizzarci meglio nella sfera personale, e la vita privata ci restituisce energie, idee, intuizioni che migliorano anche la nostra parte professionale.
Non esistono due “io” separati: uno in ufficio e uno a cena con gli amici. C’è solo un equilibrio da trovare, ogni giorno, con gentilezza e ascolto.
E allora che fare? Rallentare. Respirare. Smettere di pensare che la produttività sia sempre la risposta. Dire “basta così” non è una resa, è un atto di consapevolezza.
Ci circondiamo di esperienze che ci ricordano chi siamo: una passeggiata al parco, un caffè al bar, perdere tempo senza sensi di colpa. E iniziamo a vivere momenti che non devono servire a niente, se non a farci bene.
Abbiamo il diritto di non essere sempre perfetti. Di non essere sempre performanti e di non trasformare ogni attività in un risultato.
Di respirare, di sbagliare, di fermarci e di riderci su.
Perché, in un mondo che ci vuole iper-produttivi, iper-consapevoli e iper-pronti, la vera rivoluzione è prenderci cura di noi con leggerezza.
Con attenzione, certo.
Ma senza dimenticare che, alla fine, vivere bene è il lavoro più importante.

Vivo tra le risorse umane e le risorse dell’anima.
A Milano da quasi un decennio, con una certa inclinazione al bello che, forse, devo alle mie origini romane.
Lavoro nel mondo HR di una startup, dove mi occupo di persone, cultura e dove traduco le esigenze aziendali in linguaggio umano.
Nel tempo libero? Colleziono ispirazioni: tra yoga, mostre d’arte, mercatini vintage e tendenze da vivere più che da seguire. Scrivo per osservare il mondo con ironia, un po’ come si fa davanti ad una vetrina che riflette più di quel che mostra.
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