In un Nord America scosso da rivolte sociali, discriminazioni razziali e repressione istituzionale, la storia di Marsha P. Johnson emerge come un inno alla resilienza, alla solidarietà e all’audacia di esistere. Oggi il suo nome campeggia sui murales e nei cortei, evocato come simbolo di lotta e speranza per milioni di persone LGBTQIA+ nel mondo. Ma dietro il mito c’è la storia, spesso cruda, di una donna nera transgender che, tra mille contraddizioni e dolori, seppe sfidare un intero sistema.
Marsha nacque il 24 agosto 1945 a Elizabeth, nel New Jersey, con un nome maschile che preferiamo non riportare qui. Cresciuta in una famiglia cristiana, fin da piccola avvertì l’inadeguatezza delle rigide categorie di genere che la società imponeva. Ma in quella provincia americana non c’era spazio per la diversità, e così, appena diciassettenne, decise di inseguire la possibilità di essere sé stessa altrove.
Destinazione: New York City. Nella metropoli dei sogni e degli eccessi, nel cuore pulsante di Greenwich Village, Marsha trovò finalmente un luogo dove respirare. Tra artisti, drag queen, sex worker e attivisti, che, come lei, cercavano di sopravvivere in una società ostile, iniziò a vivere apertamente la propria identità. Fu qui che adottò il nome di Marsha P. Johnson. La “P” stava per “Pay It No Mind” (“Non farci caso”), o almeno era questa la risposta secca e orgogliosa alle domande indiscrete sulla sua identità.
L’anno cruciale fu il 1969. Gli anni ’60 erano stati un decennio di profonde turbolenze: i diritti civili, il movimento femminista, la guerra del Vietnam. Ma per la comunità LGBTQ+, gli Stati Uniti restavano un posto non proprio sicuro. I raid nei bar gay erano all’ordine del giorno e la violenza poliziesca una norma. Il Stonewall Inn, un locale frequentato da persone queer, drag queen e transgender, era spesso oggetto di retate violente. La notte del 28 giugno, la comunità che si era creata attorno a quel luogo decise di resistere, dando il via a giorni di scontri e proteste. I moti di Stonewall segnarono l’inizio di una mobilitazione che sarebbe diventata la scintilla del moderno movimento per i diritti LGBTQIA+. Il primo Pride fu organizzato un anno dopo, nel 1970, proprio per commemorare quei giorni di lotta.
Sebbene le testimonianze sull’esatto ruolo di Marsha nei moti di Stonewall siano frammentarie (lei stessa dichiarò di essere arrivata quando la rivolta era già iniziata), è ormai ampiamente riconosciuta come una delle figure chiave della ribellione. Insieme a Sylvia Rivera, amica e compagna di lotta, Marsha rappresentò il volto delle persone transgender, drag queen e homeless: i più marginalizzati tra i marginalizzati, spesso esclusi persino dalle prime organizzazioni che tendevano a privilegiare le istanze dei gay bianchi, cisgender e borghesi. Sfidando anche le ipocrisie interne al nascente movimento gay, nel 1970 fondarono la STAR (Street Transvestite Action Revolutionaries), un collettivo pionieristico che offriva sostegno concreto a giovani senzatetto transgender e queer, spesso cacciati dalle proprie famiglie e privi di qualsiasi forma di assistenza. In un’epoca in cui il termine “transgender” era ancora poco diffuso e spesso frainteso, Marsha rivendicava la sua identità di drag queen e transvestite, sfidando continuamente i confini e le definizioni imposte. Più che un’organizzazione, STAR fu un rifugio e un atto di cura collettiva, non limitandosi all’attivismo politico, ma fornendo anche vitto, alloggio e supporto emotivo a chi ne aveva bisogno, in un contesto in cui le istituzioni erano assenti o apertamente ostili. Marsha e Sylvia anticiparono di decenni il concetto oggi centrale di “intersectionality”, riconoscendo come le discriminazioni di genere, razza, classe e orientamento sessuale si intrecciassero in modo inscindibile nella vita delle persone marginalizzate.
Nonostante le difficoltà personali (visse per anni in condizioni economiche precarie e fu più volte vittima di abusi, arresti e violenze) Marsha divenne una presenza luminosa nella scena artistica newyorkese. I suoi costumi appariscenti, i fiori freschi tra i capelli e il sorriso contagioso ne fecero un’icona immediata. Frequentò artisti come Andy Warhol, posò per il suo progetto Ladies and Gentlemen e prese parte al gruppo teatrale drag Hot Peaches, che univa performance e militanza. A partire dagli anni ’80, quando l’epidemia di HIV/AIDS devastò la comunità LGBTQ+, Marsha si impegnò in prima linea con organizzazioni come ACT UP, portando aiuto e visibilità alle persone sieropositive in un’epoca di silenzi istituzionali e stigmatizzazioni feroci.
Il 6 luglio 1992, il corpo di Marsha fu ritrovato senza vita nelle acque del fiume Hudson. In un primo momento, la polizia archiviò il caso come suicidio, ma amici e attivisti contestarono subito questa versione, denunciando una lunga serie di omissioni investigative. Solo vent’anni dopo, anche grazie alla pressione di nuovi movimenti, il caso fu riaperto, ma rimane ancora oggi ufficialmente irrisolto. La morte di Marsha rappresenta tragicamente la stessa vulnerabilità che per tutta la vita aveva combattuto, e la violenza sistemica e l’indifferenza istituzionale riservata ai corpi trans e queer, nonché neri e poveri, privi di protezione legale e sociale.
Se per decenni la sua storia fu patrimonio di una nicchia di attivisti, negli ultimi anni la figura di Marsha è tornata prepotentemente al centro della memoria collettiva. Il movimento Black Lives Matter e le lotte trans contemporanee hanno rilanciato il suo esempio come simbolo di resistenza intersezionale.
Nel 2019, in occasione del 50° anniversario di Stonewall, la città di New York ha annunciato l’erezione di un monumento in suo onore e in quello di Sylvia Rivera, riconoscendo ufficialmente il loro contributo storico. È stato uno dei primi monumenti pubblici dedicati a persone transgender negli Stati Uniti, un atto simbolico ma significativo in un percorso ancora segnato da discriminazioni e violenze. Oggi il Marsha P. Johnson Institute porta avanti il suo lavoro, concentrandosi sulla protezione e i diritti delle persone transgender nere, tra le più esposte a violenza e marginalizzazione, evidenziando quanto la questione razziale sia ancora oggi inscindibile da quella di genere e orientamento sessuale.
La storia di Marsha P. Johnson non è solo quella di una pioniera dei diritti LGBTQIA+, ma anche una lezione profonda sul significato politico della solidarietà. Oggi, in un tempo in cui i diritti delle persone transgender sono ancora minacciati in molte parti del mondo, il suo esempio continua a ispirare nuove generazioni a resistere, a lottare e a immaginare un futuro in cui la giustizia possa dirsi piena solo se è davvero inclusiva.

Sono Elettra Calò, ricercatrice con esperienza nella cooperazione internazionale e nei diritti umani. Ho collaborato con ONG e istituzioni, approfondendo temi legati alla migrazione e allo sviluppo locale, in particolare in Senegal. Mi appassionano lo storytelling e la divulgazione: credo che il primo passo verso il cambiamento sia l’accensione della responsabilità collettiva dell’individuo e la decostruzione delle narrazioni precostituite, unendo analisi critica e sensibilità sociale. Sono per i processi olistici, mi piace esplorare l’esperienza umana senza soffermarmi su categorie fisse—e per questo probabilmente parlerò di tutto (sono Gemelli, capitemi).
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