La fortuna a volte arriva chiusa in un biscotto, tra un nigiri e la salsa di soia che hai già rovesciato due volte.
È successo un Venerdì sera, in un all you can eat qualsiasi, con una delle mie persone del cuore. Apro il biscotto della fortuna e leggo:
“Siete una fucina di idee! Mettetele in pratica.”
Ho sorriso a 32 denti. Non solo perché mi ci sentivo chiamata in causa, ma perché quella parola – fucina – mi ha acceso subito una sinapsi: la canzone di Francamente.
Non mi vergogno di dire che quella parola non l’avevo mai sentita prima della sua canzone. È stato Google a spiegarmi che una fucina è un laboratorio caldo, dove si piega il ferro, dove si creano strumenti.
È stata Francamente, invece, a farmi capire che una persona può esserlo, una canzone può esserlo: Tu sei la fucina di parole che io ascolto mentre suoni domande che non sono le mie.
Nel mezzo del sushi, delle chiacchiere e del mio smalto color lavanda, una parola ha acceso il pezzo che state leggendo.
“Mi vedi mossa perché non so più ridere sola”:
C’è qualcosa di rivoluzionario nel mostrarsi bisognosi. Di mani, di occhi, di suoni.
E, nel mondo delle relazioni, dove ogni gesto può essere frainteso o giudicato, dichiarare che non si riesce a “ridere da soli” non è debolezza: è coraggio.
La canzone è un atto d’amore che si scrive col sudore, col ritmo, col bisogno. È per chi ha amato corpi che non rientrano nei manuali. È per chi ha costruito la propria gioia su fondamenta fragili ma vere.
È il corpo in viaggio. È la storia personale che diventa politica. È la provincia che diventa bandiera.
Non stupisce infatti che Francamente sia una delle voci più interessanti dell’attivismo queer contemporaneo. Non solo nei circuiti musicali indipendenti, ma anche sul palco dell’Alcatraz, dove a Dicembre 2024 ha aperto il concerto di Vasco Brondi. Perché chi sa farsi corpo e parola al tempo stesso, prima o poi trova un palco che lo riconosce.
Francamente ha dimostrato che cantare può trasformare gli spazi in una manifestazione emotiva e che l’attivismo si può suonare, scrivere, sentire.
Nel Pride Month, è questa dunque la canzone da ascoltare in loop.
Perché è marcia e abbraccio, battito e bandiera.
È musica che avanza e che ci vuole a marciare con sé in prima fila

Catalina, 30 anni.
Scrivere è il mio modo di mettere ordine nel caos, non per cancellarlo, ma per ascoltarlo meglio.
Amo osservare i dettagli invisibili, quelli che fanno la differenza tra una storia raccontata e una storia vissuta.
Ho questa anima un po’ poetica e un po’ ruvida, e mi piace mescolare questi due lati senza chiedere troppo il permesso.
Mi muovo sempre tra ironia, vulnerabilità e pensiero critico.
Ho anche un debole per i contrasti, le donne che si supportano davvero, i gatti, e le frasi che ti restano addosso.
Credo che anche una mattina storta, un incontro fugace o una sensazione difficile da dire a voce, possano diventare parole che arrivano a qualcuno.
Scrivo poesie da sempre, anche quando non le chiamo così.
Le lascio tra le note del telefono o sotto la lingua – quando non trovo il coraggio di parlare.
Per me scrivere non è un talento, è un istinto: come graffiarsi per sentire se si è ancora vivi.
Amo le parole che disturbano un po’ o che accarezzano solo dopo aver morso.
E ogni tanto, da qualche crepa, esce appunto una poesia che mi assomiglia più di quanto vorrei ammettere.
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